Le sentenze più rilevanti emesse nel mese di settembre 2016
IN MATERIA CIVILE
massimario
CONTRATTI
Qualora in un contratto fra professionista e consumatore venga pattuita una clausola di individuazione di una competenza convenzionale esclusiva sulle controversie originanti dal contratto in luogo diverso da quello del foro del consumatore e, quindi, da presumersi vessatoria ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, lett. u), e, conseguentemente, nulla ai sensi dell’art. 36, dello stesso D.Lgs., in mancanza di esito positivo dell’accertamento della non vessatorietà ai sensi dell’art. 34, del medesimo D.Lgs., ove il professionista convenga in giudizio il consumatore davanti al foro a lui riferibile, nel convincimento (espresso o implicito) della vessatorietà della clausola, compete al consumatore che eccepisca l’esistenza della clausola convenzionale dare la dimostrazione che essa non era vessatoria e, quindi, provare la ricorrenza di alcuno degli elementi contrari alla vessatorietà indicati dal citato art. 34, come quello indicato dal suo comma 4. In mancanza la causa deve ritenersi correttamente radicata dal professionista presso il foro del consumatore convenuto ASSICURAZIONE CON CLAUSOLA BONUS-MALUS PER APPROFONDIMENTI: L’obbligo di buona fede della compagnia assicuratrice nella liquidazione del danno VITALIZIO ALIMENTARE O ASSISTENZIALE Civile Sent. Sez. 2 Num. 19214 del 28/09/2016 I Nel contratto atipico di vitalizio alimentare o assistenziale, l’aleatorietà, costituente elemento essenziale del negozio anzidetto, va accertata con riguardo al momento della conclusione del contratto, essendo in funzione della incertezza obiettiva iniziale della vita contemplata e della conseguente eguale incertezza in ordine al rapporto tra il valore complessivo delle prestazioni dovute dal vitaliziante (dipendenti non soltanto dalla sopravvivenza del beneficiario, ma anche dalle sue condizioni di salute, il cui peggioramento implica un aggravio delle cure) ed il valore del cespite patrimoniale ceduto in corrispettivo del vitalizio (Gess. 7 giugno 1971 n. 1694; Cass. 29 agosto 1992, n. 9998). II Nel contratto di vitalizio assistenziale, con riferimento all’età e allo stato di salute, l’alea è esclusa – ed il contratto è dichiarato nullo – soltanto se, al momento della conclusione, il beneficiario era affetto da malattia che, per natura e gravità, rendeva estremamente probabile un rapido esito letale, la quale ne abbia in effetti provocato la morte dopo 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale breve tempo, o se questi aveva un’età talmente avanzata da non poter certamente sopravvivere, anche secondo le previsioni più ottimistiche, oltre un arco di tempo determinabile. CAUSA DEL CONTRATTO – NULLITA’ Cassazione civile, sez. I, n. 19196 del 28/09/2016 In assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo del diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sè, illecito, sicchè la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l’ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l’applicazione della sola sanzione dell’inefficacia (Cass. civ., sez. 3^, n. 23158 del 31 ottobre 2014). Il motivo illecito che, se comune e determinante, determina la nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento perchè contraria a norma imperativa, ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero poichè diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una norma imperativa. Pertanto, l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri – quale quello di attuare una frode ai creditori, di vanificare un’aspettativa giuridica tutelata o di impedire l’esercizio di un diritto – non è illecito, ove non sia riconducibile ad una di tali fattispecie, non rinvenendosi nell’ordinamento una norma che sancisca in via generale (come per il contratto in frode alla legge) l’invalidità del contratto in frode dei terzi, per il quale, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale (Cass. civ. sez. 1^, n. 20576 del 4 ottobre 2010, Cass. civ. S.U. n. 10603 del 25 ottobre 1993). Anche sotto il profilo della rilevanza, nella specie, della ipotesi di bancarotta preferenziale ai fini dell’accertamento della illiceità della Causa la decisione impugnata non appare condivisibile in quanto la violazione di una norma imperativa, nella specie la invocata disposizione della L. Fall., art. 216, comma 3, non dà luogo alla nullità del contratto ma costituisce il presupposto per la revocazione degli atti lesivi della par condicio creditorum. L’art. 1418 c.c., comma 1, con l’inciso “salvo che la legge disponga diversamente” impone infatti all’interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti dalla norma (cfr. Caso. civ. sez. 3^ del 12 ottobre 1982 n. 5270, n. 6668 del 1 agosto 1987). CONTRATTO DI LOCAZIONE Cassazione civile, sez. 3, n. 18987 del 27/09/2016 Nell’ordinamento, come definitivamente chiarito da tempo da questa corte, non è rinvenibile un potere di autotutela del credito da parte del conduttore che, a fronte dell’inadempimento del locatore, decida di non corrispondere i canoni dovuti. In altri termini, al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore, costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina uno squilibrio tra le prestazioni delle parti (da ultimo, cfr. Cass. sez. 6, 26/01/2015, n. 1317).
Quindi, se la compagnia assicuratrice riceve una richiesta di risarcimento di un danno asseritamente cagionato da un suo assicurato e quest’ultimo, al fine di evitare il maggiore onere economico, ne contesta tempestivamente l’esistenza trasmettendo denuncia cautelativa ai sensi dell’art. 1913 comma 1 c.c., grava sulla impresa assicuratrice che ha liquidato il danno al terzo ignorando o considerando infondata l’opposizione dell’assicurato, fornire la prova di avere agito con la diligenza del buon padre di famiglia nell’accertamento del danno, in relazione all’art. 1218 c.c. e nella tutela degli interessi del proprio assicurato, in relazione all’art. 1375 c.c. (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 253 del 12/01/1991).
massimario
PROPRIETA’ E CONDOMINIO
Le facoltà di godimento e di disposizione del bene costituiscono contenuto del diritto di proprietà, sicché tale situazione giuridica viene ad essere pregiudicata per effetto della compressione che quelle facoltà subiscono per effetto di iniziative altrui, dolose o colpose, ingiuste perché prive di titolo. Ne consegue che, in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dal semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del proprietario medesimo e dall’impossibilità per costui di conseguire l’utilità normalmente ricavabile in relazione alla natura di regola fruttifera di esso. PROPRIETA’ E CONDOMINIO – Annessione di corpo di fabbrica a edificio condominiale Civile Sent. Sez. 2 Num. 19215 del 28/09/2016 Le facoltà di godimento e di disposizione del bene costituiscono contenuto del diritto di proprietà, sicché tale situazione giuridica viene ad essere pregiudicata per effetto della compressione che quelle facoltà subiscono per effetto di iniziative altrui, dolose o colpose, ingiuste perché prive di titolo. Ne consegue che, in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dal semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del proprietario medesimo e dall’impossibilità per costui di conseguire l’utilità normalmente ricavabile in relazione alla natura di regola fruttifera di esso (Cass. n. 1123 del 1998; Cass. n, 1373 del 1999; Cass. n. 649 del 2000; Cass. n. 7692 del 2001; Cass. n. 13630 del 2001; Cass. n. 827 del 2006; Cass. n. 10498 del 2006; Casa. n. 3251 del 2008 e Cass. n. 5568 del 2010). A conclusioni non diverse deve pervenirsi nell’ipotesi, affatto simile, in cui uno solo dei comproprietari sottragga la cosa comune al godimento degli altri, sì da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri comunisti (cfr. Cass. n, 11486 del 2010). Nell’un caso come nell’altro, infatti, le facoltà domenicali risultano compromesse sia per il venir meno di un pregresso godimento del bene, sia per l’impossibilità di trarre dalla res le utilità che la stessa è idonea a produrre in base a calcoli di tipo figurativo, atteso che è risarcibile come “cessante” non solo il lucro interrotto, ma anche quello impedito, ancorché derivabile da un uso del bene diverso da quello tipico. Tale danno, da ritenersi in re ipsa, ben può essere quantificato in base ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente. REGOLAMENTO CONDOMINIALE Civile Sent. Sez. 2 Num. 19212 Anno 2016 del 28/09/2016 Nell’ambito dell’interpretazione delle norme di un regolamento condominiale, la deduzione per la prima volta in appello di una soluzione giuridica diversa da quella precedentemente prospettata, intatti i relativi presupposti fattuali, costituisce una mera difesa, che non determina alcuna variazione del thema decidendum quale si è formato nel primo grado di giudizio. Le clausole del regolamento condominiale di natura contrattuale, che può imporre limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti, di loro esclusiva proprietà purché siano enunciate in modo chiaro ed esplicito, sono vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti qualora, indipendentemente dalla trascrizione nell’atto di acquisto, si sia fatto riferimento al regolamento di condominio, che – seppure non inserito materialmente – deve ritenersi conosciuto o accettato in base al richiamo o alla menzione di esso nel contratto. COMUNIONE E CONDOMINIO Spese per la manutenzione e conservazione delle parti comuni Civile Sent. Sez. 2 Num. 19023 del 27/09/2016 Un risalente, ma mai smentito, precedente di questa Corte (sent. n. 717/66) ha stabilito che è ammissibile il ricorso per Cassazione che sia stato proposto dopo il sessantesimo giorno dalla notificazione della sentenza di secondo grado, se, durante la decorrenza del termine per proporre ricorso, sia intervenuto il fallimento della controparte; ciò in quanto, ai sensi dell’art. 328 c.p.c., la dichiarazione di fallimento interrompe il termine predetto ed il nuovo termine decorre dal giorno in cui la notificazione della sentenza è stata rinnovata. In ordine alla rilevanza delle spese anticipate dal singolo condomino, l’art. 1134 c.c. fissa criteri particolari, in deroga al disposto dell’art. 1110 c.c., dettato in tema di comunione, che riconosce il diritto al rimborso in favore del comunista il quale ha anticipato le spese necessarie per la cosa comune nel caso di “trascuranza degli altri partecipanti e dell’amministratore”. Nel condominio la “trascuranza” degli altri partecipanti e dell’amministratore non è sufficiente. Il condomino non può, senza interpellare gli altri condomini e l’amministratore e, quindi, senza il loro consenso, provvedere alle spese per le cose comuni, salvo che si tratti di “spese urgenti” (Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 2046; Cass., Sez. 2, 12 ottobre 2011, n. 21015). Il divieto per i singoli condomini di eseguire di propria iniziativa opere relative alle cose comuni cessa quando si tratta di opere urgenti, per tali intendendosi quelle che, secondo il criterio del buon padre di famiglia, appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune (Cass., Sez. 2, 6 dicembre 1984, n. 6400; Cass., Sez. 2, 26 marzo 2001, n. 4364), l’urgenza dovendo essere commisurata alla necessità di evitare che la cosa comune arrechi a sé o a terzi o alla stabilità dell’edificio un danno ragionevolmente imminente, ovvero alla necessità di restituire alla cosa comune la sua piena ed effettiva funzionalità (Cass., Sez. 2, 19 dicembre 2011, n. 27519; Cass., Sez. 6-2, 19 marzo 2012, n. 4330). Il diritto al rimborso in seguito all’attività gestoria, svolta dal singolo condomino in deroga alla competenza dell’assemblea e dell’amministratore, si giustifica, quindi, soltanto in ragione dell’urgenza delle spese (Cass., Sez. 2, 27 ottobre 1995, n. 11197; Cass., Sez, 6-2, 19 marzo 2012, n. 4330, cit.) AZIONE DI REINTEGRA E MANUTENZIONE DEL POSSESSO Civile Sent. Sez. 2 Num. 19018 del 27/09/2016 In tema di azione di spoglio, il termine annuale ha natura sostanziale e l’azione di reintegrazione (o di manutenzione) deve essere esperita entro l’anno, decorrente dallo spoglio o dalla molestia, spettando al ricorrente la prova della tempestività dell’azione, regola dell’onere della prova che deve essere adattata ai particolari aspetti della presente fattispecie, per cui quando lo spoglio sia stato clandestino, l’onere dell’attore in possessoria non si esaurisce nella dimostrazione della clandestinità dell’atto violatore del possesso, ma deve riguardare anche la data della scoperta di esso da parte dello spogliato (in tale senso Cass. n. 1036 del 1995, nonché la stessa pronuncia invocata da parte ricorrente: Casa. n. 20228 del 2009).
massimario
OBBLIGAZIONI
ESECUZIONE OPERE PUBBLICHE – INDENNITA’ Civile Sent. Sez. 1 Num. 19206 del 28/09/2016 Anche il meno agevole accesso da un fondo ad una strada pubblica, in conseguenza della realizzazione di un’opera di pubblica utilità -in concreto, accertato in sede di merito- è suscettibile di essere considerato come una diminuzione del diritto dominicale e di ingenerare l’obbligo della pA di corrispondere al proprietario un’indennità in base all’art. 46 della L. n. 2356 del 1865, in quanto idoneo a compromettere una condizione di fatto essenziale per l’utilizzazione od il godimento del bene; circostanza, del resto, riconosciuta dalla stessa ricorrente laddove pone una relazione diretta tra facoltà di accesso al bene ed esercizio del potere dominicale, di talchè la compressione della prima finisce col provocare la lesione del diritto reale. OBBLIGAZIONI PECUNIARIE Civile Sent. Sez. 2 Num. 19218 del 28/09/2016 I La perdita della capacità processuale del fallito conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore, salvo che la curatela dimostri un proprio interesse alla lite, per cui la controparte non è legittimata a proporre l’eccezione né il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di capacità. (cfr. Cass. S.U. n. 7132/98 e nn. 5571/11, 6085/01 e 7200/98). II Poiché il credito derivante dal rapporto di agenzia per provvigioni e indennità è un caratteristico credito di valuta (cfr. Cass. n. 1335/68), diviene applicabile l’orientamento per cui il ereditare di un’obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, c.c., e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (Cass. S.U. n. 5743/15; conforme, Cass. n. 22273/10). III L’art. 1194 c.c. disciplina (come l’articolo precedente) gli effetti dell’imputazione di pagamento, la quale altro non è che l’individuazione, volontaria o legale, del credito cui l’adempimento si riferisce. Ne deriva che detta nonna in tanto può applicarsi in quanto vi sia stato l’adempimento dell’obbligazione, non anche allorché quest’ultima sia stata estinta in diverso modo quale, appunto, la compensazione. E tale adempimento deve essere, per di più, volontario (infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 1194 c.c., che prescrive di imputare i pagamenti parziali prima agli interessi e quindi al capitale, si riferisce esclusivamente ai pagamenti volontari e non a quelli eseguiti coattivamente per ordine del giudice: Cass. nn. 20574/08 e 11014/91; il medesimo concetto è espresso, con riferimento all’applicazione dell’art. 1193 c.c., da Cass. n. 238/97). OBBLIGAZIONI PECUNIARIE Civile Sent. Sez. 1 Num. 19203 del 28/09/2016 Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo coma, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali e, ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.) In tal senso Sezioni Unite n. 19499 del 2008, Cass. n. 3029 e 3954 del 2015 Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’art. 1182, terzo comma, c.c., sono — agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, comma secondo, n. 3, c.c., sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20, ultima parte, c.p.c. — esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti secondo quanto dispone l’art. 38, ultimo comma, c.p.c. Per approfondimenti: Le Sezioni Unite chiariscono il concetto di liquidità dell’obbligazione pecuniaria Per approfondimenti: Contratto autonomo di garanzia: quale tutela per il debitore? OBBLIGAZIONI DELL’INTERMEDIARIO FINANZIARIO Cassazione civile sez. 1 n. 18702 del 23/09/2016 La banca intermediaria, prima di effettuare operazioni, ha l’obbligo di fornire all’investitore – fatta eccezione per i soli operatori qualificati di cui all’art.31 del Regolamento – un’informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali e alla situazione finanziaria del cliente, e, a fronte di un’operazione non adeguata, può darvi corso soltanto a seguito di un ordine impartito per iscritto dall’investitore in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. Cass. civ. Sez. III, Sent., 23-09-2016, n. 18762 L’accesso al “bancomat” non è assimilabile ad un accesso ad un luogo o ad uno spazio di un edificio o di un’unità immobiliare, connotandosi piuttosto quale accesso ad un’attrezzatura, facente parte di un edificio privato, ma destinata a fornire un servizio al pubblico degli utenti (non solo dei correntisti della banca). Quindi, non si tratta (solo) di garantire la possibilità di raggiungere l’apparecchio, ma di assicurare l’utilizzabilità del “bancomat”, cioè l’accesso al corrispondente servizio bancario. L’ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull’obbligo dell’eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime. E’ perciò loro consentito il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l’accessibilità sia impedita o limitata, a prescindere, come si dirà, dall’esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi.
SOGGETTO OBBLIGATO AL PAGAMENTO Civile Sent. Sez. 3 Num. 19416 Data pubblicazione: 30/09/2016 Obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore per l’opera professionale richiesta non è necessariamente colui che ha rilasciato la procura alla lite, potendo anche essere colui che abbia affidato al legale il mandato di patrocinio, anche se questo sia stato richiesto e si sia svolto nell’interesse di un terzo. Si instaura in tale ipotesi, un altro distinto rapporto interno ed extraprocessuale regolato dalle norme di un ordinario mandato, in virtù del quale la posizione del cliente viene assunta non dal patrocinato ma da chi ha richiesto per lui l’opera professionale. Pertanto è da stabilire, in concreto, se il mandato di patrocinio provenga dalla stessa parte rappresentata in giudizio, o invece da un altro soggetto che abbia perciò assunto a proprio carico l’obbligo del compenso. Ed invero, non è infrequente che una parte, la quale debba essere rappresentata e difesa in un giudizio destinato a svolgersi in una città diversa da quella della propria residenza, non conoscendo legali di quel foro, si rivolga ad un professionista della propria città, e che sia poi quest’ultimo a metterla in corrispondenza con un legale del foro ove deve aver luogo il processo, al quale la parte conferisce il mandato ad litem. Quindi è possibile che la parte abbia inteso intrattenere un rapporto di clientela unicamente con il professionista che già conosceva, ed abbia conferito al legale dell’altro foro soltanto la procura tecnicamente necessaria all’espletamento della rappresentanza giudiziaria: sicché il mandato di patrocinio in favore di quest’ultimo non proviene dalla parte medesima, bensì dal primo professionista, che ha individuato e contattato il legale del foro della causa e sul quale graverà perciò l’obbligo di corrispondere il compenso. Ma può anche verificarsi che la parte abbia inteso direttamente conferire ad entrambi i legali il mandato di patrocinio (oltre che la procura ad litem). Ed è evidente che, in siffatta ipotesi, è appunto la parte ad essere tenuta al pagamento del compenso professionale e non invece il primo legale. LE OBBLIGAZIONI CHE SI ADEMPIONO AL DOMICILIO DEL CREDITORE
BARRIERE ARCHITETTONICHE – ACCESSO AL BANCOMAT
COMPENSO PROFESSIONALE
massimario
RESPONSABILITA’ CIVILE
RESPONSABILITA’ DA COSE IN CUSTODIA Civile Ord. Sez. 6 Num. 19612 Anno 2016 Presidente: AMENDOLA ADELAIDE Relatore: SESTINI DANILO Data pubblicazione: 30/09/2016 La distinzione tra strade interne e strade esterne al centro abitato non rileva al fine di escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. ai fatti verificatisi nelle seconde, bensì al solo fine di presumere l’esistenza -quanto alle prime- di un potere di controllo che va invece verificato di volta in volta per le seconde, in relazione alla natura della situazione di pericolo in concreto prodottasi.
massimario
PROCEDURA CIVILE
SFRATTO Civile Sent. Sez. 2 Num. 19425 del 30/09/2016 Nel caso di declaratoria di estinzione del procedimento di convalida, a seguito di applicazione dell’art. 662 c.p.c. – e, dunque, per mancata comparizione del locatore intimante all’udienza fissata nell’atto di citazione e in assenza di istanza del conduttore intimato, comparso a detta udienza, che si proceda, previo mutamento del rito, all’accertamento negativo del diritto azionato – non può il locatore-intimante essere condannato al pagamento delle spese di procedimento, ma queste vanno poste a carico delle parti che le hanno anticipate, in applicazione analogica dell’art. 310 c.p.c. LITISCONSORZIO NECESSARIO Civile Sent. Sez. 2 Num. 19210 del 28/09/2016 Il principio, secondo cui in tema di azioni a tutela delle distanze legali sono contraddittori necessari, dal lato passivo, tutti i comproprietari pro indiviso dell’immobile confinante, quando ne venga chiesta la demolizione o il ripristino, essendo altrimenti la sentenza inutiliter data, non si applica nel caso in cui plurimi soggetti siano, in ipotesi, interessati ad ottenere la demolizione dell’opera eseguita in violazione delle predette distanze, potendo costoro agire individualmente, con la conseguenza che la sentenza emessa in favore anche di uno solo di essi è suscettibile di esecuzione e, perciò, utilmente data (Cass. n. 8949 del 2009; Cass. n. 2035 del 1980). PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE Civile Sent. Sez. 2 Num. 19209 del 28/09/2016 «Al fine di stabilire se un determinato provvedimento abbia carattere di sentenza o di ordinanza e sia, pertanto, soggetto o meno ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, è necessario avere riguardo agli effetti giuridici che esso è destinato a produrre; ne consegue che deve essere definito come sentenza il provvedimento con il quale il giudice definisce la controversia soggetta al suo giudizio, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto il profilo processuale; mentre non è definibile come sentenza il provvedimento adottato in ordine all’ulteriore corso del giudizio, anche se con esso siano state decise questioni di merito o di procedura, essendo tali questioni soggette al successivo riesame in sede decisoria» (Cass. n. 27143 del 2006) ECCEZIONI IN SENSO STRETTO E RILEVABILI D’UFFICIO Civile Sent. Sez. 2 Num. 19212 del 28/09/2016 Le eccezioni non rilevabili d’ufficio sono solo quelle in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito (Cass. 12353 del 2010). Infatti l’evoluzione che ha segnato la giurisprudenza di legittimità, a partire dalle Sezioni Unite n.1099 del 1998, ha stabilito che il regime normale delle eccezioni è quello della rilevabilità 5 Corte di Cassazione – copia non ufficiale di ufficio, in funzione dell’assolvimento del compito primario del processo, di “servire all’attuazione di diritti esistenti e non alla creazione di diritti nuovi”. Ha quindi confinato l’ambito della rilevabilità a istanza di parte ai casi specificamente previsti dalla legge e alle eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva (es. annullamento). Infine le Sezioni Unite del 2013 (ordinanza n. 10531), dando continuità all’orientamento già insito nelle sentenze n. 226 del 2001 e n. 15661 del 2005, hanno ritenuto corretta la tesi che ammette la possibilità di rilevare di ufficio le eccezioni in senso lato, anche in appello, che risultino documentate ex actis, indipendentemente da specifica allegazione di parte. Del resto il divieto dello ius novorum in appello si riferisce alle domande, alle eccezioni e alle prove (art. 345 c.p.c.), e non già indiscriminatamente alle mere difese comunque svolte dalle parti per resistere alle pretese o alle eccezioni di controparte, potendo i fatti su cui esse si basano e che risultano dalle acquisizioni processuali essere rilevati d’ufficio dal giudice alla stregua delle eccezioni “in senso lato” o “improprie” (cfr. fra le tante, Cass. n. 11015 del 2011; Cass. n. 11774 del 2007 e Cass. n. 18096 del 2005). Il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo e conseguente possibilità per gli interessati di venirne a conoscenza e richiederne copia autentica: da tale momento la sentenza “esiste” a tutti gli effetti e comincia a decorrere il cosiddetto termine lungo per la sua impugnazione. Nel caso in cui risulti realizzata una impropria scissione tra i momenti di deposito e pubblicazione attraverso l’apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, il giudice tenuto a verificare la tempestività dell’impugnazione proposta deve accertare – attraverso un’istruttoria documentale o, in mancanza, il ricorso, se del caso, alla presunzione semplice ovvero, in ultima analisi, alla regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all’impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – il momento di decorrenza del termine d’impugnazione, perciò il momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria comportante l’inserimento di essa nell’elenco cronologico delle sentenze e l’attribuzione del relativo numero identificativo. _____ ESTRATTO Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione è sufficiente il deposito mero della sentenza attestato dal cancelliere, ben potendo ogni ulteriore adempimento intervenire successivamente, considerata la larghezza del termine all’uopo previsto, senza necessità che il termine suddetto cominci a decorrere da quando la parte abbia effettiva possibilità di conoscenza dell’avvenuto deposito, con l’unico correttivo costituito dalla possibilità di ricorso, anche d’ufficio, alla rimessione in termini solo qualora il giudice dell’impugnazione ravvisi “grave difficoltà” per l’esercizio del diritto di difesa determinato dall’avere il cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della successiva data attestante la “pubblicazione” della medesima, avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l’impugnazione. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 3 del 2015, premesso che una norma può essere dichiarata costituzionalmente illegittima soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione, ha ritenuto la questione non fondata. In particolare, rilevato che la separazione temporale dei due passaggi in cui si articola la procedura di pubblicazione della sentenza (deposito da parte del giudice e presa d’atto del cancelliere), comprovata dall’apposizione di date differenti, costituisce una patologia gravemente incidente sulle situazioni giuridiche degli interessati, riflettendo il tardivo adempimento delle operazioni previste dalla pertinente disciplina legislativa e regolamentare (tra le quali, l’inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze, con l’attribuzione del relativo numero identificativo), nonchè dalle disposizioni sul processo telematico, ed evidenziato che solo con il compimento delle operazioni prescritte dalla legge può dirsi realizzata quella pubblicità alla quale è subordinata la titolarità in capo ai potenziali interessati di puntuali situazioni giuridiche, come il potere di prendere visione degli atti pubblicati e di estrarne copia, ha ritenuto, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata del diritto vivente, che “per costituire dies a quo del termine per l’impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzato esclusivamente in corrispondenza di quest’ultima, con la conseguenza che il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende inoperante la dichiarazione dell’intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa”. Con la presente statuizione di non fondatezza “nei termini indicati in motivazione” la decisione della Consulta vincola dunque l’interprete all’adozione di una lettura delle norme in esame che garantisca la conoscibilità (dell’esistenza) della sentenza e del suo deposito fin dalla decorrenza del termine per impugnare, e conseguentemente riconosca la decorrenza di detto termine solo a partire dal compimento delle attività (sostanzialmente di inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze con attribuzione del relativo numero identificativo) idonee ad assicurare la suddetta conoscibilità. RESPONSABILITA’ AGGRAVATA EX ART. 96 c.p.c. Cassazione civile, sez. III, 29/09/2016, (ud. 20/07/2016, dep.29/09/2016), n. 19298 La mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in giudizio non può di per sè integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. (Sez. U, Ordinanza n. 25831 del 11/12/2007, Rv. 600837). E tuttavia, da un lato, la mera infondatezza d’una tesi giuridica non va confusa con la sua manifesta insostenibilità (chi sostenesse in un atto giudiziario – ad esempio – essere il testamento un contratto, o che la prescrizione ordinaria maturi in 30 anni, o che un credito si possa usucapire, non potrebbe sfuggire ragionevolmente ad una condanna ex art. 96 c.p.c.); dall’altro lato la mera infondatezza delle tesi giuridiche sostenute in giudizio non può costituire da sola e di per sè fondamento d’una condanna ex art. 96 c.p.c.; ma se si associasse ad altri elementi (come, nel caso di specie, la ritenuta inveridicità dei fatti invocati e la chiamata in causa di terzi del tutto pretestuosa) essa ben potrebbe costituire un indice sintomatico della colpa grave. Per approfondimenti: Gli effetti della notifica a uno solo degli avvocati in procura congiunta Per approfondimenti: La competenza territoriale nei giudizi di responsabilità professionale forense ONORARI DI AVVOCATO – Procedimento speciale l. 794/42 Civile Sent. Sez. 2 Num. 19025 Anno 2016 Data pubblicazione: 27/09/2016 Il provvedimento emesso all’esito del procedimento di cui agli arti. 28 e SS. legge n. 794/42 (applicabile nella specie essendo stato introdotta la domanda di merito prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150/11, che ha abrogato detti articoli), espressamente definito non impugnabile, per il suo carattere decisorio e irretrattabile (v. Cass. n. 13547/00) è soggetto a ricorso straordinario per cassazione sia ove emesso correttamente con ordinanza (giurisprudenza costante di questa Corte da Cass. S.U. n. 2593/53 in poi), che è la forma prescritta dal 6° comma dell’art. 29, legge cit., sia ove adottato erroneamente con sentenza e senza l’adozione del rito camerale restandone 4 esclusa l’appellabilità (cfr. Cass. nn. 2623/07, 5949/98, 10770/96, 2448/94, 1272/86, 4562/83, 532/82 e 4701/81). Detto procedimento, infatti, mira a liquidare il credito dovuto per pacifiche prestazioni giudiziali civili dell’avvocato, e presuppone, pertanto, un’attività di mera quantificazione cui è estranea la funzione giudiziale dirimente sull’an deheatur. Ne restano escluse tutte le ipotesi in cui le difese del convenuto, avendo ad oggetto una domanda riconvenzionale o un’eccezione o una difesa d’altro tipo (inesistenza del diritto al compenso, eccedenza dei limiti del mandato, esecuzione effettiva dell’incarico, cause estintive o limitative del diritto rinvenienti da altri rapporti, esemplifica Cass. n. 7652/04) amplino tale originario ihema decidendurn. Nel qual ultimo caso, ove anche emessa sotto forma di ordinanza la decisione ha il valore sostanziale di sentenza e può essere impugnata solo con l’appello (Cass. n. 13640/10, 21261/10, 1666/12, 21554/14). ONORARI DI AVVOCATO Cassazione civile, sez. III, 30/09/2016, n. 19388 Nel regime del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, qualora il tribunale, investito di un’opposizione a decreto ingiuntivo emesso per somme dovute a titolo di prestazioni giudiziali di avvocato e proposta con citazione anzichè con ricorso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., previo rilievo dell’applicabilità del citato art. 14, e disattendendo la replica in senso contrario dell’opponente in ordine alla inapplicabilità di quella norma (nella specie motivata dal non essere le prestazioni relative a giudizi civili, bensì rese davanti al giudice amministrativo), dichiari tardiva l’opposizione in quanto iscritta a ruolo oltre il termine per la proposizione dell’opposizione riferito al deposito del ricorso, decidendo la causa con il rito ordinario di cognizione, come una normale opposizione a decreto ingiuntivo, la sentenza non è ricorribile ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 3, ma con l’appello ai sensi dell’art. 339, primo comma, c.p.c., operando ai fini dell’individuazione del mezzo di impugnazione il principio di c.d. ultrattività del rito. LA NOTIFICA DELLA SENTENZA SE A COSTITUIRSI E’ UN DIPENDENTE DELLA P.A. Cassazione civile, sez. lav., n. 17532 del 02.09.2016 La disposizione processuale (art. 417 bis c.p.c.) relativa alla difesa delle pubbliche amministrazioni da parte di propri funzionari nelle controversie di lavoro dei dipendenti, contempla una ipotesi di difesa diretta (e non già di delega del patrocinio da parte della avvocatura dello Stato) sicché devono trovare applicazione i principi già consolidati in tema di difesa diretta delle amministrazioni ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 3, nonchè in relazione ai giudizi di opposizione a sanzione amministrativa (L. n. 689 del 1981, art. 23) ed ai giudizi davanti alle commissioni tributarie (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38). Per approfondimenti: Notifica della sentenza se a costituirsi è un dipendente della P.A. massimario PROCEDURE CONCONRSUALI Il preteso creditore il quale proponga opposizione allo stato passivo, dolendosi dell’esclusione di un credito del quale aveva chiesto l’ammissione, è onerato della prova dell’esistenza del credito medesimo secondo la regola generale stabilita dall’art. 2697 c.c., comma 1, (v. per vari aspetti Cass. 14 luglio 2014, n. 16101; Cass. 16 gennaio 2012, n. 493; Cass. 6 novembre 2013, n. 24972; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21251), tant’è che, dal momento che il giudizio di opposizione allo stato passivo è regolato dal principio dispositivo, il creditore, la cui domanda ex art. 93 della legge fallimentare sia stata respinta dal giudice delegato, è sottoposto all’onere di produrre nuovamente, dinanzi al tribunale, nel corrispondente procedimento ex art. 99 della legge fallimentare, la documentazione già depositata in sede di verifica del passivo e posta a sostegno della domanda (p. es. Cass. 14 luglio 2014, n. 16101). Una volta che il Fallimento, dinanzi alla pretesa creditoria azionata nei suoi confronti in sede di opposizione allo stato passivo, pretesa riferita ad una somma dovuta in forza di un contratto a prestazione corrispettive, avanzi un’eccezione di inadempimento, il riparto degli oneri probatori segue parimenti le regole ordinarie, le quali si riassumono nel principio secondo cui, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poichè il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Inoltre, anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento (Cass. 12 febbraio 2010, n. 3373, sulla scia di Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533). Il credito i.v.a., per poter essere soggetto a falcidia nell’ipotesi in cui il debitore ricorra al concordato preventivo nella forma della transazione fiscale, deve essere inserito in un’apposita classe di crediti privilegiati i.v.a. che resti al di fuori della transazione stessa. L’esclusione del credito dalla transazione fiscale, infatti, permette la non applicazione dell’art. 182 ter l. fall., in base al quale sarebbe consentito unicamente il pagamento dilazionato del credito. Il concordato preventivo omologato può essere annullato, ex art. 186 l. fall., quando l’approvazione dei creditori si sia fondata su un’indotta rappresentazione erronea circa la sua fattibilità e convenienza. Infatti, l’annullamento è disposto quando l’errore dei creditori è da ricondurre ad un’alterazione dell’effettiva situazione patrimoniale della società debitrice, realizzata da quest’ultima non solo attraverso le condotte citate dall’art. 138, comma 1, l. fall., ma anche tramite qualsiasi atto di frode posto in essere a tal fine. LA NOTIFICA DELL’ISTANZA DI FALLIMENTO A SOCIETA’ CANCELLATA DAL REGISTRO DELLE IMPRESE DICHIARAZIONI DI INCOSTITUZIONALITA’ LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro) nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado. ESTRATTO La formulazione originaria dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 riconosceva il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile, anche in maniera continuativa, alla lavoratrice madre o, in alternativa al lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità che avesse compiuto i tre anni di età, nonché a colui (lavoratore dipendente) che assistesse una persona con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente. L’art. 19, comma 1, lettera a), della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città), modificando l’art. 33 della legge n. 104 del 1992, ha previsto la copertura da «contribuzione figurativa» dei giorni di permesso retribuito di cui al comma 3 dello stesso articolo. L’art. 20 della medesima legge n. 53 del 2000 ha sancito l’applicabilità delle disposizioni dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992 «ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente». Dalla lettura congiunta dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992 con l’art. 20 della legge n. 53 del 2000, la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, 22 maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato, sezione sesta, 1° dicembre 2010, n. 8382) ha desunto la eliminazione del requisito della “convivenza” anche per i permessi mensili retribuiti di cui al comma 3 dell’art. 33, nonché l’introduzione dei diversi requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza ai fini della concessione delle agevolazioni in questione. L’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010 ha modificato sensibilmente la portata dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992. In particolare, il legislatore, nel ridefinire la categoria dei lavoratori legittimati a fruire dei permessi per assistere persone in situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari. Infatti, se, da un lato, ha eliminato la limitazione del compimento del terzo anno di età del bambino per la fruizione del permesso mensile retribuito da parte del lavoratore dipendente genitore del minore in situazione di disabilità grave (potendo i genitori, in forza della modifica, fruire, alternativamente, del permesso mensile retribuito anche per assistere figli portatori di handicap in età inferiore ai tre anni), dall’altro, ha riconosciuto il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado. Solo in particolari situazioni l’agevolazione in questione può essere estesa ai parenti e agli affini di terzo grado delle persone da assistere. Infatti, l’estensione del diritto a fruire dei benefici in questione ai parenti e affini di terzo grado è stata prevista nei casi in cui il coniuge o i genitori della persona affetta da grave disabilità: a) abbiano compiuto i sessantacinque anni di età; b) siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o mancanti. L’art. 24 della legge n. 183 del 2010, inoltre, se da un lato, nel novellare l’art. 20, comma 1, della legge n. 53 del 2000, ha eliminato i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti, dall’altro, nel modificare l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, ha introdotto il principio del “referente unico” per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne alternativamente, per l’assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione dell’art. 33, comma 3, come sostituito dall’art. 24, comma 1, lettera a), della legge n. 183 del 2010, è stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della “convivenza”. Il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia dei permessi mensili retribuiti spettanti per l’assistenza a persone con disabilità grave, in sede di attuazione della delega contenuta nell’art. 23 della legge n. 183 del 2010. Tale delega è stata attuata dal d.lgs. n. 119 del 2011, in particolare dall’art. 6. L’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 119 del 2011 ha aggiunto un periodo al comma 3 dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992, relativo alla disciplina della particolare fattispecie del cumulo dei permessi mensili retribuiti in capo al dipendente che presti assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, allorquando ricorrano determinate situazioni ivi elencate. 3.2.- Quanto all’ammontare e alle modalità di godimento dei permessi mensili retribuiti ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, l’indennità – fruibile in maniera continuativa o frazionata – è pari all’intero ammontare della retribuzione ed è a carico dell’ente assicuratore; viene anticipata dal datore di lavoro ed è portata a conguaglio con gli apporti contributivi dovuti all’ente assicuratore (ai sensi dell’art. 43 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53», nel quale sono contenute le disposizioni dell’art. 8 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, recante «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro», abrogato dall’art. 86 del d.lgs. n. 151 del 2001). Inoltre, i periodi di fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, sono computabili nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità (ai sensi dell’art. 34, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, richiamato dall’art. 43, comma 2, del medesimo decreto legislativo). Il permesso mensile retribuito di cui al censurato art. 33, comma 3, è, dunque, espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale. 3.3.- La tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla legge n. 104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie «il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap» (sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005). Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito in questione. Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, la ratio legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare. Risulta, pertanto, evidente che l’interesse primario cui è preposta la norma in questione – come già affermato da questa Corte con riferimento al congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 – è quello di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito» (sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007). Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da «rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione», secondo quanto letteralmente previsto dall’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992. L’istituto del permesso mensile retribuito è dunque in rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla legge n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap. La salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost., rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). L’assistenza del disabile e, in particolare, il soddisfacimento dell’esigenza di socializzazione, in tutte le sue modalità esplicative, costituiscono fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003). Il diritto alla salute psico-fisica, ricomprensivo della assistenza e della socializzazione, va dunque garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» (sentenza n. 138 del 2010). 3.4.- Alla luce delle premesse sopra svolte, se tale è la ratio legis della norma in esame, è irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito ivi disciplinato, non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità. L’art. 3 Cost. va qui invocato, dunque, non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile (v. sia pure per profili diversi, la sentenza n. 404 del 1988). E ciò in particolare – ma non solo – nei casi in cui la convivenza si fondi su una relazione affettiva, tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle “aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost. Questa Corte ha, infatti, più volte affermato che la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost. (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004). In questo caso l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost. D’altra parte, ove così non fosse, il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio. 3.5.- Se, dunque, l’art. 3 Cost. è violato per la non ragionevolezza della norma censurata, gli artt. 2 e 32 Cost. lo sono, quanto al diritto fondamentale alla salute psico-fisica del disabile grave, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. La norma in questione, nel non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, vìola, quindi, gli invocati parametri costituzionali, risolvendosi in un inammissibile impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione. 3.6.- Il carattere residuale della fruizione dell’agevolazione in questione da parte del parente o affine entro il terzo grado, induce questa Corte ad includere il convivente tra i soggetti beneficiari, in via ordinaria, del permesso mensile retribuito (coniuge, parente o affine entro il secondo grado). 3.7.- Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.IMPUGNAZIONI IN MATERIA CIVILE
Termine per l’impugnazione
Cass. civ. Sez. Unite, 22 settembre 2016, n. 18569
La notifica della sentenza va pertanto effettuata alla stessa autorità amministrativa, nelle forme previste dagli artt. 170 e 285 c.p.c. – (e non presso l’ufficio della avvocatura dello Stato territorialmente competente secondo le previsioni del R.D. n. 1611 del 1933, art. 11).
In particolare la norma dell’art. 417 bis c.p.c., che attribuisce alla amministrazione la facoltà di avvalersi dei propri dipendenti nel giudizio di primo grado, va interpretata nel senso che essa attribuisce al funzionario tutte le capacità connesse alla qualità di difensore, ivi compresa quella di ricevere la notificazione della sentenza ai fini del decorso del termine di impugnazione, ancorchè tale notifica si collochi necessariamente in un momento successivo alla conclusione del grado.
Cass. civ. Sez. I, 23-09-2016, n. 18705